Le immagini della guerra in Ucraina hanno fatto il giro del mondo, costringendo la comunità internazionale a prendere coscienza della commissione di crimini che, almeno in terra d’Europa, si sperava fossero sepolti nel passato.
Mentre è iniziata la ricognizione degli atti commessi dalle forze armate russe identificabili come crimini di guerra, il conflitto russo-ucraino ha altri risvolti ancora poco considerati: i danni sull’ambiente.
Già nel 2014, la prima invasione russa del Donbass aveva amplificato la dispersione nell’ambiente di sostanze tossiche di una regione altamente industrializzata, sede di imprese minerarie metallurgiche e chimiche, abbandonate senza alcun sistema di protezione perché in prossimità del fronte, con tanto di inquinamento delle falde acquifere e possibile dispersione nell’ambiente di sostanze radioattive.
Anni dopo, le truppe russe, incuranti delle conseguenze delle azioni intraprese, muovono verso l’area della centrale di Chernobyl, provocando un aumento delle radiazioni gamma, incidendo sull’impianto di sicurezza della zona, oltre – chiaramente – a destare forte preoccupazione in tutto il mondo, e aprono il fuoco sui reattori della centrale di Zaporizhzhia.
La distruzione di edifici dovuta a bombardamenti ed esplosioni disperde nell’aria, nel terreno e nell’acqua metalli pesanti e polveri sottili, senza escludere la presenza dell’amianto, creando dei danni a lungo termine sulla salute delle persone e incidendo profondamente sul cambiamento climatico.
Ma come si misurano i danni della guerra sull’ambiente? Come si accertano le responsabilità? Esistono delle misure a riguardo?
Ecocidio, un nuovo crimine
Il termine “ecocidio” venne ideato nel 1970 dal biologo americano Arthur W. Galston, in riferimento alla dispersione nell’ambiente del cosiddetto agente arancio, una sostanza defoliante utilizzata dagli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam allo scopo di danneggiare l’ambiente e l’intera popolazione vietnamita. Due anni dopo, il primo ministro svedese Olof Palme propose il riconoscimento dell’ecocidio come crimine internazionale in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano.
I tentativi di dare una definizione giuridica all’ecocidio come conseguenza di attività belliche sono proseguiti negli anni successivi con la proposta di una Convenzione Internazionale sul crimine di ecocidio, sul modello di quella sul genocidio, con un articolo pubblicato nel 1973 dal prof. Richard Falk sulla Revue Belge de Droit International. Questo lavoro è stato ripreso nel 1978 dalla Sottocommissione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione della Discriminazione e la Protezione delle Minoranze. Qui si leggeva:
«Articolo I. Le Parti contraenti confermano che l’ecocidio, commesso in tempo di pace o in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che si impegnano a prevenire e punire.
Articolo II. Nella presente Convenzione, per ecocidio si intende uno qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di sconvolgere o distruggere, in tutto o in parte, un ecosistema umano:
- L’uso di armi di distruzione di massa, siano esse nucleari, batteriologiche, chimiche o altro;
- L’uso di erbicidi chimici per defogliare e disboscare le foreste naturali per scopi militari;
- L’uso di bombe e artiglieria in quantità, densità o dimensioni tali da compromettere la qualità del suolo o aumentare le prospettive di malattie pericolose per l’uomo, gli animali o le colture;
- L’uso di attrezzature di bulldozer per distruggere ampi tratti di foresta o terreni coltivati per scopi militari;
- L’uso di tecniche progettate per aumentare o diminuire le precipitazioni o modificare in altro modo il tempo come arma di guerra;
- L’allontanamento forzato di esseri umani o animali dai loro luoghi abituali di abitazione per accelerare il perseguimento di obiettivi militari o industriali.»
Nel 1991 la Commissione di diritto internazionale aveva adottato in prima lettura una definizione di ecocidio da perseguire anche in tempo di pace.
L’iniziativa “Stop Ecocide Foundation”
Nel 2021, la proposta di emendamenti allo Statuto di Roma da parte di un Panel di Esperti Indipendenti proviene dall’iniziativa dell’organizzazione Stop Ecocide Foundation. Gli emendamenti proposti consistono nell’aggiunta di una considerazione nel Preambolo che sottolinea la preoccupazione di minacce severe all’ambiente, tali da mettere in pericolo i sistemi naturali e umani, dalla menzione del crimine di “ecocidio” all’art. 5(1) e dalla sua definizione all’art. 8 ter.
In base all’art. 121 dello Statuto di Roma, una proposta di emendamento deve essere presentata al Segretario Generale ONU che, a sua volta, lo divulgherà a tutti gli Stati parti. Non prima di tre mesi, l’Assemblea degli Stati Parti decide a maggioranza dei presenti e votanti se ricevere la proposta di emendamento. Segue l’adozione diretta dell’emendamento o l’indizione di una Conferenza di revisione, se il tema in oggetto lo richiede. Ad oggi, nessuna decisione è stata ancora presa in merito.
L’articolo 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, al comma 2, lett. (b), par. 4, riconosce come crimine di guerra “il lancio intenzionale di un attacco nella consapevolezza che tale attacco causerà la morte accidentale, lesioni a civili, danni a obiettivi civili o danni diffusi, a lungo termine e gravi all’ambiente naturale che risulti chiaramente eccessivo in relazione al vantaggio militare concreto e diretto preventivato”. Sicuramente un riconoscimento degno di nota, ma apparentemente limitato a conflitti internazionali e subordinato alla presenza di un attacco armato, nonché all’accertamento del grado di proporzionalità fra vantaggio militare calcolato e danno effettivamente prodotto alla porzione di ambiente naturale coinvolto. Inoltre, risulta tutt’altro che semplice l’accertamento in termini di severità, estensione e di propagazione nel tempo dei danni in questione.
Per questa ragione, occorre innovare la normativa esistente nell’ambito del diritto penale internazionale ampliando il novero dei crimini ambientali, non solo ponendoli in relazione ai conflitti armati civili e internazionali ma considerando anche una serie di atti altrettanto preoccupanti. Basti pensare ai fenomeni ormai noti del land grabbing o la stessa opera di deforestazione intrapresa dal primo ministro brasiliano Bolsonaro.
Il lavoro di diverse organizzazioni non governative è utile a porre i riflettori sulla mancanza di una normativa adeguata a riguardo: se il dibattito è aperto presso la CPI, alcuni Stati si muovono già autonomamente sugli ordinamenti nazionali. Esempi sono il Vietnam, la Francia o, guarda caso, la Russia.
Anche l’Unione Europea ha ampiamente dimostrato di dare attenzione particolare al tema: oltre al Green Deal europeo e in ottemperanza allo spirito degli Accordi di Parigi, sono state presentate delle Risoluzioni dal Parlamento europeo sul riconoscimento dell’ecocidio come crimine internazionale e nell’ambito della corporate responsability. Inoltre, l’European Law Institute si sta dedicando alla redazione di un modello normativo dedicato al tema dell’ecocidio che possa permeare il diritto dell’Unione Europea.
Per il momento, demandando tutto alle difficili operazioni di accertamento di tali crimini, restiamo in attesa che la comunità internazionale, anche in linea con la rinnovata presa di coscienza globale a riguardo, ponga in essere strumenti giuridici idonei a considerare l’ambiente naturale come entità a sé stante e meritevole di tutela.
Chissà se presto vedremo istituito un tribunale ad hoc per il crimine di ecocidio.